“Supportiamo il disinvestimento perché manda un segnale chiaro alle compagnie, specialmente quelle del carbone, che l’era del ‘brucia ciò che vuoi’ non può continuare”. A parlare così è Nick Nuttall, portavoce della Convenzione sul Cambiamento Climatico delle Nazioni Unite, l’UNFCC. Per la prima volta l’Onu si schiera apertamente a sostegno della campagna internazionale per spingere istituzioni, fondi pensioni, governi e risparmiatori a disinvestire dagli asset in fonti fossili.
I motivi che stanno dietro alla campagna sono noti e piuttosto semplici: se vogliamo evitare gli effetti più disastrosi del global warming dobbiamo lasciare sotto terra gran parte delle riserve di carbone, petrolio e gas. Secondo le stime dell’International Energy Agency (IEA), se vogliamo avere buone possibilità di fermare il riscaldamento globale entro a soglia critica dei 2 °C, due terzi delle riserve provate di combustibili fossili dovranno rimanere sotto terra. Secondo altri studi, come quello di Carbon Tracker Initative, la quantità di combustibili fossili che non potremo bruciare se vogliamo affrontare seriamente il global warming è addirittura dell’80%.
A rischio, oltre al clima, sono anche i soldi di chi investe: le politiche per il clima e la transizione energetica in atto verosimilmente impediranno di far fruttare adeguatamente gran parte degli asset in miniere e trivelle. È la cosiddetta bolla del carbonio, che potrebbe avere effetti disastrosi anche per l’economia mondiale se questa non si disintossica abbastanza in fretta da carbone, petrolio e gas.
Motivazioni che sembrano condivise dall’UNFCCC: “Tutto quello che facciamo è basato sulla scienza e la scienza ci dice che abbiamo bisogno di un mondo con molti meno combustibili fossili”, commenta al Guardian Nuttal, confermando: “Abbiamo messo a disposizione dei gruppi e delle organizzazioni che stanno disinvestendo la nostra autorità morale di Nazioni Unite. ”Fino ad ora c’era stato, a novembre, un appello agli investitori del segretario generale Ban Ki-moon a “ridurre gli investimenti nell’economia del carbone e delle fossili”, ma l’Onu non era mai arrivata ad appoggiare esplicitamente la campagna per il disinvestimento.
La dichiarazione delle Nazioni Unite si aggiunge a diversi appelli autorevoli ed estranei al mondo dell’ambientalismo o dell’energia rinnovabile che di recente hanno messo in guardia sugli investimenti in fossili, moniti arrivati dal Fondo sovrano norvegese, dalla Banca Mondiale, dalla Banca d’Inghilterra e da voci importanti del mondo della finanza come HSBC, Goldman Sachs e Standard and Poor’s.
La campagna di disinvestimento dalle fossili, cui hanno aderito soprattutto università, chiese ed enti pubblici, verosimilmente non produrrà un impatto economico significativo sugli investimenti in energie fossili: almeno in questa fase, l’attacco è soprattutto sul piano morale e comunicativo. Tuttavia la presa di posizione dell’Onu è sicuramente significativa, ma da un certo punto di vista contraddittoria. L’organismo rappresenta, infatti, le nazioni e proprio gli Stati sono tra i più grandi investitori in fossili: possiedono o controllano indirettamente circa il 72% delle riserve mondiali di petrolio, il 73% di quelle di gas e il 61% di quelle di carbone.
Oltre a questo le nazioni aiutano i privati a trivellare e a scavare. Solo i Paesi del G20, ad esempio, ogni anno destinano 88 miliardi di dollari di denaro pubblico per aiutare le compagnie a sviluppare nuove riserve, nonostante la promessa fatta cinque anni fa di eliminare progressivamente gli aiuti alle fossili a partire proprio da quelli per le esplorazioni, denuncia l’ong americana Oil Change International. I sussidi alle fossili secondo la IEA (che considera solo quelli al consumo) nel 2012 a livello mondiale sono stati pari a 544 miliardi di $, contro i 104 miliardi destinati alle rinnovabili. Il Fondo Monetario Internazionale stima l’aiuto a gas, carbone e petrolio in 1.900 miliardi $/anno.
Secondo un recente studio, che individua le riserve da non estrarre partendo da quelle più climalteranti, costose e problematiche, la Cina e l’India potranno usare solo il 13% delle proprie riserve di carbone, l’EU l’11%, l’Africa il 10%, gli Stati Uniti il 5% e la Russia appena il 3%. Lo scenario che dovrebbe concretizzarsi per il bene del clima sembra cioè decisamente incompatibile con la situazione energetica attuale di molte superpotenze: si pensi alla Cina che nel 2014 ha visto il Pil crescere del 7,4% e che, nonostante gli sforzi in atto, dipende a ancora dal carbone per circa l’80% della sua domanda di energia.
Il supporto dell’ONU alla campagna di disinvestimento dalle fossili è un ottimo segnale: ma ora bisognerebbe che lo ascoltassero gli Stati nazionali. A partire dall’Italia, che con norme come quelle contenute nello Sblocca Italia ribadisce di voler continuare a puntare sulle fonti sporche, dimostrandosi inconsapevole dei rischi ambientali, climatici, sanitari ed economici.
Fonte: Redazione Qualenergia.it