Chi non vuole o non si può permettere l’acquisto diretto può optare per una vasta gamma di prestiti specifici per questi prodotti oppure può prendere in affitto l’impianto attraverso un TPO cioè third party ownership, che comporta un canone annuale, che il più delle volte consiste in un PPA – power purchase agreement – cioè l’acquisto, in genere per una ventina di anni, a prezzo fisso e competitivo rispetto a quello di rete, dell’elettricità prodotta dai pannelli, che restano sempre di proprietà del venditore dell’energia. L’elettricità non usata dal cliente viene venduta alla rete dal proprietario dell’impianto, al prezzo industriale del momento. Alla fine del periodo di affitto, l’impianto può essere acquistato o rimosso o si rinnova l’accordo di vendita dell’energia. In pratica il PPA è qualcosa di molto simile ai nostri SEU.
Negli Stati più “solari” di America, i PPA finanziano gran parte delle installazioni FV. Per esempio a fine 2013 appartenevano a queste categorie l’85% degli impianti in Arizona, il 70% in Colorado e il 60% in California. Visto che la fine degli incentivi in Italia apre la strada anche da noi a questo tipo di accordi (con i Conti Energia, titolare del contatore, proprietario dell’impianto e chi incassava gli incentivi dovevano coincidere), può essere interessante vedere quali di questi sistemi di finanziamento sia più conveniente. Per scoprirlo si può usare un rapporto recentemente rilasciato sul tema dal National Renewable Energy Laboratory (NREL) americano (allegato in basso).
Il rapporto, realizzato dagli economisti David Feldman e Travis Lowder, mette a confronto il costo effettivo dell’elettricità solare (LCOE) per gli utenti che scelgono di farsi prestare del denaro per acquistare l’impianto, oppure per quelli che optano per un PPA. I risultati dello studio del NREL (che chiaramente sono basati sulle peculiarità delle diverse realtà statunitensi in quanto a costi degli impianti, tariffe elettriche, tassi di interesse, ecc.) sono abbastanza inequivocabili: chi si dota di un impianto fotovoltaico in ogni caso ci guadagna rispetto al comprare energia di rete, ma meglio farsi prestare i soldi e comprarsi l’impianto, che passare attraverso PPA.
Caso chiuso? Non proprio, perché prima di tutto il costo annuale per ripagare il prestito, nei primi anni, può essere più alto sia della tariffa di un PPA, che della stessa bolletta di rete, e questo soprattutto nel caso dei prestiti a scadenza più breve. Quindi, se si vogliono cali immediati del costo dell’energia, meglio optare per il PPA. Inoltre con il PPA tutti i costi di manutenzione, sorveglianza e riparazione (per esempio l’inverter ai 10 anni di scadenza) e relative seccature, sono a carico di chi vende l’energia dell’impianto, mentre in caso di acquisto con prestito ci deve pensare il proprietario.
Del vantaggio dei prestiti si è accorta anche SolarCity, una delle aziende Usa più attive nel campo dei TPO, che, per aggredire i mercati con i costi dell’elettricità più bassi, che rendono il PPA non conveniente, ha appena lanciato un prestito a 30 anni per l’acquisto di un impianto FV, che grazie ad una rata molto bassa, rende il FV competitivo anche nel caso di kWh prelevati dalla rete molto economici.
Ma quanto accade negli States è applicabile anche alla realtà italiana? «Penso proprio di sì. Fino a che c’erano i Conti Energia e relativi incentivi, questi metodi di finanziamento non erano convenienti o addirittura vietati dalle norme. Oggi il campo è aperto a tutte le soluzioni, e ognuna di queste può essere più o meno adatta, a secondo delle possibilità e richieste del cliente.
Ma lo studio NREL sostiene che, quanto a convenienza complessiva, se non si vuole acquistare l’impianto con propri capitali, meglio pagare le rate di un prestito che la tariffa di un SEU. «Non credo – osserva Brambilla – che le condizioni che si incontrano negli Usa siano esattamente le stesse che si ritrovano in Italia; per esempio da noi i prezzi di acquisto sono più bassi, l’elettricità è più cara e gli sconti fiscali sono limitati solo al residenziale. I calcoli fatti al NREL andrebbero quindi rivisti nella nostra situazione. C’è poi da considerare che molti, anche avendo la possibilità di acquistare in proprio l’impianto, non vogliono avere la responsabilità di controllarlo, mantenerlo alla massima efficienza ed eventualmente ripararlo, preferendo lasciare queste incombenze ai proprietari dell’impianto, come del resto lasciano all’Enel la gestione delle sue centrali».
La soluzione SEU in third pary ownership comporta rischi proprio per chi vende l’elettricità: se il cliente fallisce, il proprietario dell’impianto resta con il cerino in mano. In quel caso l’unica entrata rimane la vendita dell’elettricità alla rete, con incassi molto minori del previsto. Per questo operare nel campo dei SEU non è banale: «occorre studiare bene il cliente, scegliendo quelli che garantiscono un alto autoconsumo, e quindi l’acquisto di una buona percentuale dell’elettricità prodotta, ma che siano anche abbastanza affidabili da durare per i 20 anni dell’accordo», spiega l’esperto. Secondo lui in Italia i SEU cominciano ad attirare interesse: «Il mercato inizia a muoversi», ci ha detto.
Fonte: Quale energia (Link)